Cià Guagliò
La verità è questa: “niente, nun ce facimmo capace…(…) ci portiamo un cuore gonfio di amarezza, di tristezze, di tenerezze…. Avimmo perza ‘a chiave… “ recita triste Eduardo in “Questi fantasmi”. Sì, “nun ce facimmo capace”!
E’ difficile, e molto, scrivere in un’occasione così triste. Non pretendo di riuscire a dire tutto ciò che ci sarebbe da dire. Scrivo e basta. Quello che ho pensato in questi giorni. Da napoletana. E non trovo le parole…
Ognuno come succede in queste circostanze dice la sua. La realtà è una sola: amara, cupa, come il risveglio di un “sole amaro”, della mia città, lunedì mattina. Napoli sì è svegliata nella metà nera della vita e della sua storia. Pinuccio non c’è più: un brivido l’ha percorsa da capo a piedi. Il suo grande cuore l’ha tradito nella notte. “O’ ssai comm’ fa o’ core” no? Ed ora Napoli è più sola. Senza temere la retorica, Pino resterà sempre una, anzi “la” voce, nel cuore della città, con i suoi mille colori, con la sua natura di carta sporca, con la sua speranza, con le sue lacrime e con le sue risate, con il sogno di eterni lazzari felici. Nei vicoli, in collina, come un’onda del mare di Mergellina quando c’è burrasca, la notizia è uno schiaffo. Napoli è un silenzio. E’ come morta. “Avimmo perza ‘a chiave”…
Sembra passato un secolo, il tempo si dilata. Le notizie rimbalzano: forse poteva salvarsi, ma “chi ‘o ssape? Si è destinàt è destinàto”; funerali a Roma, poi le richieste che corrono sul web con qualche polemica, e la decisione della famiglia: il funerale anche a Napoli. E’ giusto così. Che importa, qualcuno dirà, dove viene celebrato il rito funebre? Pino Daniele era di tutti, di tutta l’Italia. Napule piange, ma anche Milano, Aosta e Palermo sono tristi. La grandezza di Pino è stata quella di fare a pezzi, a colpi di blues, gli stereotipi che avvolgevano il settentrionale come il meridionale.
Ma è giusto così, Pino doveva tornare nella sua città, per un ultimo saluto. A Napoli tutto è esagerato, tutto è amplificato, anche la morte non è un fatto solitario, meno che mai se ad andarsene è la “sua” voce, perché Pino Daniele non è un simbolo di Napoli, è Napoli. E Napoli è Pino Daniele. La voce di Pino Daniele è una voce “evocatrice”: una voce, cioè, che fa riemergere la storia di Napoli con tutta la nostalgia del passato, la difficoltà di vivere il presente, l’incertezza del futuro di cui, non me ne vogliate, solo i napoletani conoscono il significato. Pino Daniele ha portato Napoli sui palcoscenici del mondo. Lo ha fatto anche quando se ne è andato a vivere altrove e quando forse si è sentito incompreso.
Pino Daniele, capelli bianchi da sempre, un ragazzone con il sorriso da scugnizzo ha il merito grandissimo di aver evitato la musica mielosa per parlare di Napoli e di farlo non come un fenomeno folcloristico. E Napoli si riconosceva in Pino Daniele, l’artista che aveva saputo valorizzarla non attraverso le sue maschere ma partendo dalla realtà e dalla poesia, l’uomo che l’aveva liberata dagli stereotipi, che l’aveva portata nella modernità con cultura, umanità e ironia. Un artista orgogliosamente napoletano, che ha cantato in lingua napoletana. Perchè il napoletano è una lingua, lo dice l’Unesco. Non c’erano bisogno di traduzioni per capire allora questa lingua perché come traduttore, chi ascoltava e rimaneva colpito da tanta musicalità, usava il cuore.
Tenerezza, nostalgia, poesia, ironia percorrono le sue canzoni. Nasce così un capolavoro come “Napule è”, ma anche canzoni come “Quann’ Chiove”, “Putess’ Essere allero”.
Ha raccontato Napoli come nessuno prima di lui. Alternava napoletano e inglese, creando un miscuglio linguistico in chiave blues; jazz e suoni etnici, pop, rock, e pure la musica classica. Yes I know my way, era il modo di riprodurre il My way di Frank Sinatra in chiave napoletana. La sua musica prende le mosse dal jazz che gli americani delle basi Nato suonavano nel porto di Napoli e dintorni. La sua grandezza sta nell’avere fuso i generi. Sonorità americane, con l’iniziale contributo di James Senese, e nostalgia napoletana: “Appocundria me scoppia ogne minuto ‘mpietto”
Espressioni che fanno il giro del mondo e che rendono il loro significato solo in lingua napoletana: come ne “Na tazzulella ‘e cafè” “E nuje tirammo ‘nnanze, cu ‘e dulure ‘e panza… e invece ‘e ce ajutá, ce abbóffano ‘e cafè…” (“Noi tiriamo avanti, con dolori di pancia… e invece di aiutarci ci riempiono di caffè…”): o come in “Napule è” dove “ciorta” sta per sorte. Ma a Napoli il termine supera il significato letterale, la “ciorta” è qualcosa che va oltre il destino.
“Scrivo canzoni perché non riesco altrimenti a dire quello che sento. Cerco di non scrivere testi, ma poesie d’amore”. E ancora: “Parole e musica nascono assieme. È roba che fa da sempre parte della mia vita. Perché io stesso nasco in musica. In questo suono a tratti mediterraneo, io e i miei ci riconosciamo. Napoli è molto vicina all’Africa e anche all’America” diceva ed era un napoletano solare ma schivo, lontano dai cliché e dai luoghi comuni. E per questo un vero napoletano capace di vedere più lontano degli altri, restando con i piedi per terra, sempre in sintonia con la sua gente, tutta la sua gente, senza distinzioni di ceto e di cultura, capace di evocare e rafforzare emozioni, costruendo un nuovo inno alla città; sarà per sempre il suo capolavoro scritto a 18 anni con l’ingenuità, la bellezza e l’incoscienza della gioventù: “Napule è”.
Scegliere i versi tra le sue canzoni è impossibile, ti vengono nella mente, soprattutto in questi giorni, senza ordine di tempo, all’improvviso, mentre cammini, mentre pensi, mentre canti, mentre scherzi con gli amici. Perché ci sono parole, espressioni che sono diventati patrimonio di tutti come “Lascia pazzia pecchè ‘e criature song’è Dio”, “Napul ‘è mille paure”, “Si se ntost’ a nervatura mett’ a tutt nfacc’o muro”, “Che calore, che calore comm coc’o sole”.
La verità è questa: “niente, nun ce facimmo capace!” …”Non ci facciamo capaci” perché più diminuisce l’incredulità più aumenta il dolore. Perché a noi napoletani Pino Daniele, con la sua musica per quasi quarant’anni, ci ha accompagnati, ha accompagnato la nostra vita. Perché per quelli della mia generazione Pino Daniele è stato qualcuno che è sempre stato lì, da quando noi abbiamo incominciato a pensare. Ecco perché Pino è Napoli, perché non c’è un solo napoletano che non abbia legato un momento della sua vita con la musica di quest’artista. Con Pino siamo cresciuti, abbiamo riso, giocato, cantato, studiato, attraversato la città con il famoso autobus arancione, il “111 nero” (dove almeno una volta nella vita un napoletano sale), cantando a squarciagola “ ‘O scarrafone” per “prendere con filosofia” il traffico soffocante.
La sua musica, le sue canzoni, sono di quelle che è facile legare a doppio filo alla nostra vita. Le conservi in qualche cassetto del cuore quando sono più sentimentali e appassionate, per risentirle scorrere nella mente accompagnate al “film” della domenica pomeriggio quando le sentivi uscire dalla macchina del vicino, nel traffico, mentre con il vestito buono accompagna la ragazza a prendere il gelato a Mergellina; eccole poi in sintonia con le gambe quando spingono sull’acceleratore del ritmo e la macchina va nel sole, sull’autostrada, che ti apre spazi che sembrano pacificarti con il mondo. Oppure sedersi e ascoltarle se ti prende la malinconia accoccolato sul divano e ti accorgi quanto sono musicali, raffinate, sorprendenti. Ci hanno accompagnato canzoni memorabili, assoli leggendari, una voce come un graffio sull’anima nelle strade della città.
Lascia un vuoto incolmabile. Quella musica inconfondibile (perché Pino era un musicista superlativo e studiava ancora la chitarra) mischiata con la nostra lingua, musicale, poetica, unica: l’orgoglio di sentirsi napoletani. La musica e la voce di Pino Daniele sono l’anima di questa città: sono l’odore del ragù della domenica mattina, quello che la mamma cuoce a fuoco lento e spegne prima di portarti a Messa, sono la macchina che viene pulita il sabato pomeriggio, le strade vuote in attesa che il Napoli scenda in campo al San Paolo, lo stereo della macchina al massimo per andare a mangiare la pizza con gli amici; qualcuno ha scritto sul web: “La musica di Pino Daniele non la senti, la tocchi. La tocchi su di un muretto scaldato dal sole, la tocchi sulla ringhiera quando guardi Napoli da sopra San Martino, la tocchi sulla pelle sporca di sale di un pescatore…”
Esiste una canzone di Pinuccio che solo una volta è stata cantata. E’ stata cantata al Palasport di Napoli anni fa, sembra essere un triste testamento che non ha bisogno di traduzione: “partiamo per tornare dove siamo nati”. Piove a Napoli mentre la salma del “Nero a metà” arriva nella Piazza del Plebiscito stracolma di persone. Piove tristemente.
Sud, scavame ‘a fossa, / voglio muri’ cu te! / Mmiez’ ‘e penziere d’ ‘a gente / dint’ ‘a chest’aria ‘e turmiente. / Sud, scavame ‘a fossa, / voglio muri’ cu te… / ‘Ncopp’ ‘o presepio a Natale, / dint’ a ‘nu cuopp’ ‘e giurnale.
E ogge, ca i’ passo ‘a ‘nu munno a n’ato, / a me mme pare quase tutt’ ‘o stesso.
‘E mamme, ‘e figlie, ‘e viecchie, ‘e mariuole, / si stanno a Sud / fanno cchiù rummore.
Nuje nun simmo mangiaspaghetti, / nuje nun simmo né terrone e né fasciste: / nuje ch’ammo jettato ‘o sanghe / int’a sta Storia, / partimmo pe’ turna’ / addo’ simmo nate.
Partimmo, pe’ gghì a truva’ / chello ch’ammo lassato.
Ma pecché? / Sud, scavame ‘a fossa, / voglio muri’ cu te!
Se non sei napoletano non puoi capire fino in fondo cosa sia la ‘appocundria. E’ una parola intraducibile per chi non parla la nostra lingua e messaggio universale affidato alle note della sua chitarra: Pino Daniele ha saputo gridare per quel dolore che non andava via da Napoli e dai napoletani. Ci ha regalato una musica dolce e amara per cambiare le cose, per guardarle con occhi nuovi.
Ci ha fatto sognare che “un posto ci sarà per essere felici, cantare a squarciagola, e dici tutto chello ca vuo’ tu”.
Cià guagliò!
Luisa Loredana Vercillo
Commenta