Dalla Grande Stoltezza e dal Grande Rimpianto: Oscar meritato per “La Grande Bellezza”

tramonto_bellezzaBasta aver vinto un Oscar per fare di un Film discutibile un capolavoro, consacrandolo alla Storia del Cinema? Per carità, sono contenta per l’Italia e per il suo cinema. Ancor di più per Sorrentino e Servillo fosse anche solo per la loro napoletanità …Nonostante ci piaccia pensare che sia stata premiata la qualità e il buon cinema, non è questa l’unica e forse nemmeno la principale ragione, per la quale La Grande Bellezza ha vinto l’Oscar per il Miglior film straniero. Per vincere un Oscar, specie come in questo caso, il meccanismo è più importante del film in se e saperlo sfruttare può essere determinante.

Non a caso ogni anno c’è un film come La Grande Bellezza, un “assopigliatutto” che di premiazione in premiazione, di festival in festival, ammassa trofei, riconoscimenti, menzioni e viene celebrato in tutto il mondo. Quel film che i giurati di certo non si perdono perché è il film di cui parlano tutti. Per questo, al di là dei meriti, capita di frequente che un film solo raccolga i principali premi per il cinema in lingua straniera di tutto il mondo, alimentando nei mesi il suo stesso mito fino ad arrivare all’Oscar.

I giurati dell’Academy sono poco più di 6.000, tutti diventati tali per un misto di sponsorizzazione da parte delle case produttrici, quasi nessuno dei 6000 membri vede tutti i film. È quindi evidente che per poter partecipare e poi vincere il problema maggiore è essere visti dal maggior numero possibile di giurati. Questo avviene lavorando economicamente, cioè organizzando eventi, buffet, feste e via dicendo che includano una proiezione o che creino passaparola sull’importanza di un certo film (in modo che, se pure non si presenzia alle proiezioni, almeno venga la voglia di guardare i dvd che ogni giurato riceve) e che includono anche gli spot della “Cinquecento” della Fiat con tanto di Sorrentino al volante!

Questa motivazione è una delle molte per le quali il nostro cinema non è presente da tempo nella cinquina di nominati per Miglior Film Straniero: investimenti insufficienti. La Grande Bellezza invece arrivava con un ottimo passaparola vincendo il Golden Globe era quindi già “il film da vedere”, quello che i giurati erano più stimolati a guardare o che se non altro stava in cima alla loro lista di cose da vedere.

Tutto questo non leva di certo i meriti di un film che è autenticamente straordinario, Oscar o non Oscar, ma è sempre meglio intendersi bene sulle motivazioni della vittoria che si celebra. La Grande Bellezza è un film costruito per i concorsi, specialmente all’estero: strepitosa accoppiata fotografia-musica della più bella capitale del mondo, una micro dolce vita fatta da sfigati, che da noi è scomparsa dagli anni 80, ma che piace assai agli stranieri.

Le cose piaciute di più oltreoceano sono quelle che forse sono piaciute di meno a noi italiani. Intanto l’idea che il ritratto di Roma sia proprio quello, mentre sappiamo benissimo che la nostra Capitale è ben diversa da come appare nel film. Lo stesso Sorrentino, intelligentemente precisa come non abbia voluto presentare una Roma in chiave realistica, bensì trasfigurata dalla immaginazione sua e del suo sceneggiatore, Contarello.

Gli americani, che dell’Italia conservano un’idea sempre un po’ stereotipata, hanno pensato che il film sia una specie di nuova Dolce vita. Dunque gli è piaciuto ancora di più. Nella pellicola ci sono poi degli elementi sicuramente vincenti, specie in terra straniera. Intanto l’estrosità e l’estetica delle ambientazioni e dei costumi, in cui la cura del regista e dei vari reparti danno il meglio, soprattutto agli occhi degli americani. Basti pensare all’invenzione delle giacche rosse e gialle indossate con nonchalance da Tony Servillo, una sfida temeraria allo stile compassato di Armani per noi italiani, ma non per gli “ammerricani”. Come pure la bellissima colonna sonora, un mix di sacro antico e di profano, che gli americani ci invidiano, non avendo nessuna delle due cose. Infine il coraggio dello stile immaginifico di Sorrentino che per certi versi ricorda l’estro di Federico Fellini. Sorrentino è furbo perché con le belle immagini di Roma intorta gli americani ma non racconta niente. In ogni caso bisognerebbe essere più contenti e meno delusi riguardo la vittoria de La Grande Bellezza. E se ha vinto l’Oscar un motivo ci sarà, alla fine il film riesce ad essere una riflessione sul Tempo (che è anche noia, purtroppo). Non esiste al cinema solo l’intrattenimento e a volte anche la Noia serve per dire delle cose. Un altro motivo per essere contenti è che la vittoria agli Oscar di Sorrentino dà al nostro cinema un momento di maggior rilevanza internazionale sperando che ciò abbia una ricaduta economica. È un film con un finale aperto, con una storia non lineare e chiusa e si presta a dibattiti e discussioni soprattutto tra i giovani, il che non guasta. E veniamo alla “Grande Bellezza”.

Sulla terrazza di un appartamento con vista sul Colosseo, va in scena il party per i 65 anni di Jep Gambardella (Tony Servillo), l’autore di un unico romanzo di successo (40 anni prima!) che ha sprecato la propria vita in un’esistenza di vacuità e disincanto. Jep demolisce la postura intellettuale delle sue amiche radical chic, quando fanno del presunto impegno politico l’arma snob per elevarsi al di sopra dei propri simili, poi bastano poche parole fino al “gran finale” dove ci svela la sua “grande bellezza”.

Torniamo alla festa, dove ci sono tutti: la cocainomane, la prostituta, la nana e le ballerine, la voce remixata della Carrà, il giovine nietzschiano, il Carlo Verdone, le bimbe prodigio, il mafioso del piano di sopra , il collezionista d’arte contemporanea & degradata, la diva in pieno disfacimento psico-fisico. Marionette senza fili, mangia fuochi di se stessi, cinici persecutori dei loro cancri, crudeli perfino con i loro corpi (si veda alla voce ‘Serena Grandi’: pazzesca, e patetica nella caricatura di se stessa come un mostro al botulino, leggi anche Ferilli con zigomi “supertirati”). Insomma, un circo popolato da fantasmi, compreso Jep, che non si limitano a infestare la vita (come in Fellini), ma imitano se stessi sempre perennemente annoiati. Strepitoso Servillo in alcuni tratti ad “incarnare” tale volto della Noia. I loro sono trenini senza meta, non arrivano a nulla…

Pochi film come “La Grande Bellezza” riescono ad avvilire le certezze dello spettatore e metterlo a disagio. Opera da ammortizzare nel tempo, verso la quale il bisogno di rivederla ancora nasce spontaneo già fin dopo i titoli di coda. Come se il film volesse dirci ancora qualcosa che non siamo riusciti a intendere. Cosa ci è sfuggito, cosa non abbiamo colto? Parte come film inspiegabile finché, mentre cerchi invano una spiegazione, non ti accorgi che è pure inguardabile, una specie di paradosso visivo considerata la bravura di Sorrentino con la macchina da presa.

La messa in scena, magistrale, inappuntabile, è una morsa autoritaria che non concede respiro. Ti affascina nonostante questo. Non lascia sfogo. Non consente empatia, coinvolgimento, comprensione e la lunghezza non aiuta. La Grande Freddezza? Tutti quei movimenti di macchina, quei primi piani intenti a stanare la mostruosità del quotidiano e l’ambiguità della bellezza, si rivelano altrettanti vicoli ciechi.

Film sulla vita, sul sogno, sul tempo e naturalmente sul nulla. Un film sul nulla, con nessun significato, tranne quello che ognuno di noi ha voluto attribuirgli e forse proprio qui è la “genialata” di Sorrentino.

Il sogno impossibile (e mai realizzato) di Flaubert. Roma è il parco giochi di chi vaga liberamente osservando i regali che la Storia ha concesso alla città eterna. Il turista giapponese che, sul Gianicolo, stramazza al suolo. Mentre l’Urbe, che dovrebbe crollare e non crolla mai, assiste bellissima e indifferente. Spettacolari queste scene “singole” ma l’amalgama non convince del tutto. Tutti soffrono e ridono della loro umana bruttezza. Ops, volevo dire bellezza. Quanto grande, è difficile dirlo. Siamo a circa mezz’ora e il film-capolavoro sarebbe potuto finire qui. L’unica cosa che Jep non può avere è il ritorno: all’amore perduto, ai tempi creativi del suo romanzo. E questa malinconia è un motore continuo tra la Roma, città eterna, cioè spazio e tempo. Innegabili sono le emozioni estetiche che la padronanza della macchina da presa del regista può generare, volteggiando tra le statue testimoni del passato e il mondo stolto che ruota su Jep. Talvolta la storia gira troppo a vuoto perdendosi nelle impressioni e tramutandole in tempi morti. Il ricorso alla computer grafica è stonante, terribile la scena finale con i fenicotteri “al photoshop”.

Il sogno, di tanto in tanto, arriva in soccorso della fantasia e dell’immaginazione, ma tutto si consuma in un attimo. Sfuggente come il mare che appare sul soffitto di una camera da letto. E’ davvero questo l’unico modo per arginare la presenza della morte nella vita? E’ davvero necessaria una “Grande Stoltezza”?

Attimi di Grande Bellezza da trovare, con un certo affanno, tra le pieghe delle brutture che accompagnano l’esistenza. In fondo a questo film senza storia resta il senso di un Grande Rimpianto, di una felicità a portata di mano eppure irraggiungibile. Ma anche la consapevolezza che tutto questo è una sciocchezza, che le parole sono bellezza senza verità, esattamente come i sogni, che possono solo premonire la fine.

Tra giraffe e prestigiatori, cardinali che parlano solo di cucina e sante centenarie più sveglie di una teen ager, il film giunge al capolinea (ma che fatica arrivarci!) tra scene potenti ed affascinanti e momenti di irritante lentezza. “Perché il trucco è sempre quello”. Se la vita è dannatamente banale, al di sotto (o al di là) di tutto quello che se ne possa dire, scrivere o filmare, resta la solitudine, l’effimero, il tempo che scorre, il segno di una sospirata Bellezza. C’è chi ha scritto che la bellezza è qualcosa che ognuno vuole tirare fuori da sé, qualcosa che rende tutto migliore di quello che è realmente, qualcosa che ci permette attraverso il nostro sguardo di andare sempre al di là. Forse la “Grande Bellezza” nasce da una grande decadenza, da una Grande Stoltezza che ha bisogno di ritrovare la speranza semplice di chi ci ha messo il cuore, come uno sprazzo di tramonto sul cielo di Roma.

Luisa Loredana Vercillo

Commenta