Ezio Bosso: il pianoforte dono contro la malattia
Carlo Conti presenta Ezio Bosso, il compositore e direttore d’orchestra in sedia a rotelle. “La musica è una fortuna – spiega il compositore – e, come diceva il grande maestro Claudio Abbado, è la nostra vera terapia”.
“Gli uomini tendono a dare per scontato le cose belle – continua Bosso – ma ogni tanto a tutti capita una stanza buia e piccola. Noi siamo dodici stanze (allude ’The 12th Room’, il suo ultimo album), nell’ultima ricordiamo la prima, quando nasciamo non la possiamo ricordare, perché non vediamo, ma nell’ultima la vediamo perché siamo pronti a ricominciare”.
Bosso esegue al pianoforte ’Following a bird’, contenuto nel suo album ’The 12th room’, brano che “mi fa riflettere sul fatto di perdersi per imparare a seguire – spiega il compositore – perdere i pregiudizi, le paure, perdere il dolore ci avvicina”.
In platea, al termine dell’esecuzione, c’è una standing ovation da parte di tutto il pubblico e della sala stampa. “Non solo hai suonato a Sanremo – commenta il presentatore – ma hai anche ottenuto una standing ovation, come professionista e come uomo”. “Ricordatevi sempre – conclude il compositore – che la musica come la vita si può fare solo in un modo: insieme”.
(da La Stampa)
CHI È EZIO BOSSO – Nel 2011 Bosso ha subito un intervento al cervello che – parole sue – l’ha costretto ad affrontare una «storia di buio». E la malattia si è aggiunta a una sindrome autoimmune che lo costringe a camminare con l’aiuto di un bastone. Ora – dice – si sente «un uomo con una disabilità evidente in mezzo a tanti uomini con disabilità che non si vedono. A un certo punto avevo perso tutto, il linguaggio, la musica: la ricordavo, ma non la capivo. Suonavo e piangevo, per mesi non sono riuscito a far nulla. La musica non faceva parte della mia vita, era lontana, non riuscivo ad afferrarla. Ho scoperto così che potevo farne a meno. E non è stato brutto. È stato diverso, è stata un’altra esperienza. Ho imparato che la musica è parte di me, ma non è me. Al massimo, io sono al servizio della musica».
Lentamente, con grandi sofferenze e molte gioie, grazie agli amici e alla maturità («Se tutto questo fosse accaduto dieci anni fa, probabilmente non sarei qui a raccontarlo», dice lui), ha riconquistato «la coordinazione tra corpo e mente necessaria per tornare al pianoforte». E ha scoperto nuove verità: «Che siamo belli. Noi esseri umani siamo bellissimi, ma spesso, chissà perché, tendiamo a dimenticarcene. Che non esistono storie brutte, ma solo tristi, o allegre. E che dobbiamo avere paura solo delle storie noiose. Ora parlo a fatica, non posso più correre, ma riesco ancora a suonare. E nel momento in cui metto le mani sulla tastiera volo lontano da ogni problema. Se prima provavo per dieci ore al giorno adesso dopo due mi devo fermare (saranno contenti i miei vicini di casa)».
Da qualche anno, Bosso vive a Londra: «In Italia – racconta – mi considerano un compositore di colonne sonore. E tutto questo perché nel 2003 ho scritto le musiche di Io non ho paura, il film di Gabriele Salvatores, un lavoro che amo e odio perché mi ha dato un’apertura internazionale – da allora cominciarono a chiamarmi in America e poi in tutto il mondo – ma che mi ha segnato. È chiaro che questo mi fa soffrire: il mio Paese è l’unico che pensa che io faccia solo musica da cinema. Ma io ha scritto per il balletto, ho scritto sinfonie, ho un mio percorso, un mio pensiero, credo nella musica come valore sociale, politico e quindi culturale».
A quattro anni, Ezio Bosso leggeva il solfeggio ma non l’alfabeto, pensava solo in termini di suono: «Non è stato difficile capire in che direzione stava andando la mia vita». A undici anni, al Conservatorio di Torino, fu salvato da John Cage in persona dalla violenta ramanzina di un maestro. Poi Philip Glass divenne il suo «mentore» e il minimalismo («Che è ricerca dell’essenza, non scarsità di mezzi espressivi») la sua filosofia. «Per me ogni suono si traduce in un’immagine o in un colore. E allo stesso modo le immagini mi provocano suoni. La mia musica, che proprio per questo è così amata dal cinema, deriva dalla squadratura di un’immagine che diventa una cellula e poi si sviluppa e porta ad altre immagini, diventa una sequenza e questa sequenza alla fine diventa un brano. La musica è trascendente, costringe a uscire dal sé, ad andare oltre. È terapeutica, e nessuno lo sa meglio di me».
(Da La Stampa)
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