Un secolo fa le vittime dei naufragi erano italiani emigranti in America

naufragi_italianiNel corso degli ultimi vent’anni il fenomeno dell’immigrazione di massa verso l’italia ha raggiunto dimensioni impressionanti, e impressionante è anche il tributo di sangue pagato nel viaggio verso l'”Eldorado Europa”. Secondo Fortress Europe, osservatorio sulle vittime dell’immigrazione, tra il 1988 e il 2008 almeno 12.012 persone hanno perso la vita tentando di raggiungere clandestinamente il Vecchio Continente. E nel solo Canale di Sicilia i morti sono stati 2.511.

E se per tentare di arginare il fenomeno, oltre alle leggi come la Bossi-Fini e alle operazioni internazionali come Mare Nostrum, c’è chi propone di “aiutare i clandestini a casa loro”, chi ha chiesto un blocco navale e chi ha addirittura proposto di cannoneggiare le carrette del mare che trasportano i migranti diretti in Italia, spesso ci si dimentica che un secolo fa erano proprio gli italiani a imbarcarsi sulle carrette del mare per raggiungere la “terra promessa”, l’America. E oggi come allora, il viaggio verso il miraggio di una vita migliore si pagava con il sangue.

L’emigrazione di massa – Dal 1876 al 1915 furono ben 14 milioni gli italiani che, armati solo di speranza e di una valigia di cartone, lasciarono tutto per cercare fortuna altrove. E se per i primi 10 anni il viaggio era più semplice, perché la destinazione preferita era l’Europa, a partire dal 1886 gli italiani cominciarono a imbarcarsi per raggiungere l’America: nei quarant’anni dell’emigrazione di massa, 7 milioni e 600mila italiani attraversarono l’Atlantico diretti inizialmente in Argentina e poi anche in Brasile e Stati Uniti.

I vascelli della morte – La traversata avveniva, se possibile, in condizioni addirittura peggiori di quelle che oggi si riscontrano quotidianamente sulle barchette che partono dalla Libia dirette verso Lampedusa: secondo il Museo nazionale dell’emigrazione italiana, “al trasporto dei migranti sono assegnate le carrette del mare, con in media 23 anni di navigazione. Si tratta di piroscafi in disarmo, chiamati ‘vascelli della morte’, che non potevano contenere più di 700 persone, ma ne caricavano più di 1.000, che partivano senza la certezza di arrivare a destinazione”.

I vascelli fantasma – Quando anche vi arrivavano, spesso parte della “merce” arrivava ormai senza vita a causa delle pessime condizioni igienico-sanitarie, trasformando la nave in quello che veniva definito “vascello fantasma”: il Museo nazionale dell’emigrazione riporta come sul piroscafo “Città di Torino” nel novembre 1905 ci furono 45 morti su 600 imbarcati; sul “Matteo Brazzo” nel 1884 20 morti di colera su 1.333 passeggeri (la nave venne poi respinta a cannonate a Montevideo per il timore di contagio); sul “Carlo Raggio” 18 morti per fame nel 1888 e 206 morti di malattia nel 1894; sul “Cachar” 34 morti per fame e asfissia nel 1888; sul “Frisia” nel 1889 27 morti per asfissia e più di 300 malati; sul “Parà” nel 1889 34 morti di morbillo; sul “Remo” 96 morti per colera e difterite nel 1893; sull’”Andrea Doria” 159 morti su 1.317 emigranti nel 1894; sul “Vincenzo Florio” 20 morti sempre nel 1894.

Le tragedie del mare – Le pessime condizioni delle imbarcazioni utilizzate per trasportare la “tonnellata umana”, come veniva chiamato il carico di emigranti, anche un secolo fa provocavano spesso sciagure come quella avvenuta al largo della Libia: 576 italiani (quasi tutti meridionali) morti il 17 marzo 1891 nel naufragio dell'”Utopia” davanti al porto di Gibilterra; 549 morti (moltissimi dei quali italiani) nella tragedia del “Bourgogne” al largo della Nuova Scozia il 4 luglio 1898; 550 emigrati italiani vittime, il 4 agosto 1906, del naufragio del “Sirio” in Spagna; 314 morti (secondo la conta ufficiale, ma per i brasiliani le vittime furono più di 600) nel naufragio della “Principessa Mafalda” il 25 ottobre 1927 al largo del Brasile.

Il naufragio della “Principessa Mafalda” – Proprio quella della “Principessa Mafalda” è la peggior sciagura che abbia mai colpito gli emigranti italiani. Varata il 22 ottobre 1908 ed entrata in servizio il 20 marzo 1909, era l’ammiraglia della flotta del Lloyd italiano (assorbito poi nel 1918 nella Navigazione Generale Italiana) e il più prestigioso piroscafo tricolore, invidiato dalle compagnie di navigazione del resto d’Europa sia per i lussuosissimi arredi della prima classe, sia per il salone delle feste esteso, per la prima volta nella storia della navigazione, in verticale su due ponti. E anche la terza classe era stata concepita in modo innovativo, con ampi stanzoni muniti di servizi igienici capaci di ospitare fino a 1.200 passeggeri, generalmente migranti. In occasione dell’ultimo viaggio prima del disarmo e dello smantellamento, la nave partì da Genova l’11 ottobre 1927 con a bordo 1.259 persone, tra le quali diversi migranti siriani ma soprattutto numerosi emigranti piemontesi, liguri e veneti. Il piroscafo, che secondo la società armatrice era in perfette condizioni, in realtà non era più considerato sicuro dagli addetti ai lavori dopo vent’anni di scarsa manutenzione e di usura. Tanto che, solo nel tratto di Mediterraneo verso Gibilterra, la nave subì 8 guasti ai motori, uno alla pompa di un aspiratore, uno all’asse dell’elica di sinistra, uno alle celle frigorifere.

Dopo una navigazione relativamente tranquilla nell’Atlantico, e nonostante il comandante, a causa di continue vibrazioni al motore di sinistra, avesse inutilmente chiesto alla compagnia di trasbordare i passeggeri su un altro transatlantico, il 25 ottobre la nave era a 80 miglia al largo della costa del Brasile, tra Salvador de Bahia e Rio de Janeiro. La “Principessa Mafalda” procedeva a velocità ridotta e visibilmente inclinata verso sinistra, quando alle 17.10 venne percepita una forte scossa: l’asse dell’elica sinistra si era sfilato e, continuando a ruotare per inerzia, aveva provocato un enorme squarcio nello scafo. E l’acqua, dopo aver allagato la sala macchine, invase anche la stiva poiché le porte stagne non funzionavano correttamente.

Lanciato l’SOS, le navi accorse si fermarono però a distanza temendo che la caldaia del piroscafo italiano potesse esplodere, e non fu possibile comunicare loro che il pericolo era stato scongiurato aprendo le valvole del vapore perché l’unico generatore di corrente presente a bordo era stato danneggiato dall’acqua impedendo così l’uso del telegrafo. Poco dopo le 22, quando la nave restò completamente al buio, a bordo scoppiò il panico: il capitano fece calare le scialuppe di salvataggio, ma a causa dell’inclinazione a sinistra quelle di dritta colpirono lo scafo andando in pezzi. Di quelle calate in mare, molte erano danneggiate e imbarcavano acqua; altre vennero prese d’assalto e si ribaltarono. Molti passeggeri si tuffarono cercando di raggiungere a nuoto le navi di soccorso, e alcuni di loro vennero divorati dagli squali; mentre altri si suicidarono, sparandosi pur di non morire annegati.

Secondo i dati ufficiali forniti dalle autorità italiane (le quali – si era in pieno regime fascista – minimizzarono il disastro, parlando inizialmente di poche decine di vittime solo tra l’equipaggio) i morti furono 314, ma i sudamericani diedero un numero di morti più che doppio, ben 657. Ancor oggi, però, non è chiaro quanti furono i migranti italiani che persero la vita a bordo del “Titanic italiano”, una carretta del mare sulla quale si erano imbarcati sognando un futuro migliore.

(da Tgcom24)

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