L’invisibile attimo della salvezza. Totò Riina e la sua partita con la morte
Leggo proprio ora che Totò Riina è in fin di vita. Il “capo indiscusso” di Cosa Nostra. Il “Capo dei Capi”, quante volte l’abbiamo sentito definire così, uno che non si è mai pentito di come ha condotto la sua vita e che ora è dinanzi alla morte. Chissà, forse non si era mai soffermato a pensare che sarebbe giunto al capolinea o forse si, in questi ultimi anni della malattia. Non ci è dato saperlo. Né vorremmo, forse.
Non starò lì a riproporre la storia di un uomo, il suo percorso per le vie del Male, l’inferno che ha scelto di vivere già qui, sulla Terra. Riina, che oggi compie 87 anni, sta scontando 26 condanne all’ergastolo. E questo dice tutto.
Piccole e confuse riflessioni mi passano invece per la mente mentre scorro velocemente la notizia: “le condizioni di salute di Totò Riina nelle ultime ore si sono aggravate e il boss è in fin di vita. Il Capo dei Capi negli ultimi giorni è stato sottoposto a due delicati interventi chirurgici ed è in coma ricoverato nel Reparto detenuti dell’ospedale di Parma in regione di 41 bis.”
“La Procura nazionale antimafia e dell’amministrazione penitenziaria, il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, hanno firmato il permesso per consentire ai parenti di stare accanto al boss.” I parenti stretti, sua moglie, i suoi figli. E’ giusto così.
“Per me tu non sei Totò Riina, sei il mio papà. E in questo giorno per me triste ma importante ti auguro buon compleanno papà. Ti voglio bene, tuo Salvo” scrive su Facebook, il figlio minore del capomafia di Corleone.
Leggo, e penso alle tante storie, ai visi, alle persone che hanno trovato la morte perché erano al posto giusto al momento giusto, impegnati a vivere una vita vera, giusta, piena. Un lungo terribile elenco di nomi, quello dei morti ammazzati per mano della mafia. A capo: Totò Riina. Terra usurpata dalle mafie, l’Italia, con la violenza e il sangue innocente che ha bagnato le nostre zolle.
E mentre penso a quei visi e a quei nomi innocenti, rifletto tra me che anche lui, Totò Riina, che pensava di non aver bisogno di niente e nessuno, negli ultimi momenti della sua vita, ha incontrato sul suo cammino un gesto di pietà.
Un gesto di umanità, di giustizia, ma anche di diritto, quello disprezzato dal boss per tutta la vita, gli permette in questi momenti di avere qualcuno accanto che lo accompagni nell’ultimo viaggio. Qualcuno obbietterà che le sue vittime non hanno avuto nessuno con cui condividere l’agonia della morte. E’ vero. Ma paradossalmente Totò Riina ne ha più bisogno di coloro che hanno trovato la morte per mano sua. Perché quella specie di uomo, dagli occhi piccoli, dal lampo diabolico che tante volte gli ha attraversato lo sguardo, quell’uomo che tutti abbiamo visto più volte in tv quando nell’aula di tribunale chiamato a rispondere delle più efferate stragi di mafia, con un ghigno malefico stretto tra le labbra sottili, ancora sfidava lo Stato… quell’uomo è solo, ma solo davvero, davanti alla morte. Nessuno dovrebbe morire da solo.
Ora sarà in un lettuccio dell’infermeria del carcere di Parma. Una piccola stanza? Una luce fioca a fargli compagnia? I figli accanto su di una seggiola? Perdonate la morbosità, ma non posso fare a meno di chiedermi: come muore un boss? Cosa sta accadendo nelle ultime ore di vita di un uomo che ha rappresentato per decenni il male? In fondo un povero diavolo, e non è un eufemismo: un uomo anziano di 87 anni, le membra ischeletrite, il viso scavato, le ossa sporgenti sotto la pelle livida e prosciugata dalla disidratazione.
Il boss sta morendo. Chissà se ancora in momento di lucidità si sia sentito piccolissimo, terribilmente vecchio di tutto il dolore e lo strazio provocati, nel suo stare al mondo, alle sue vittime. E il viso diabolico denutrito, gli occhi socchiusi o magari lo sguardo perso nel lontano, nel nulla. Ora nell’oblio del coma.
Un mistero, la morte, per tutti gli uomini. Di più per uno che mai ha provato pentimento, ravvedimento. Chissà se ha avuto contezza di tutto il male del mondo, raggrumato come in un nodo di carne in quel corpo di vecchio. Tutto il male degli uomini, aggrovigliato, contorto: odio, avidità e violenza, puzzo d’acido e di carne saltata in aria nel sole dell’estate siciliana.
Ma i mafiosi, come tutti gli uomini, restano persone anche quando si sono macchiati dei delitti più efferati. Persone con i loro peccati, le loro convinzioni, la loro ” fede” con la quale pensano di “comprare” il Paradiso in atti formali di devozione, mentre corrompono e distruggono l’uomo per il quale nostro Signore è morto.
Per Riina, anche Cristo è morto sulla croce, perché nemmeno la sua morte, di emblema del Male, fosse per sempre; e portava su di sé, quel giorno, Cristo, anche la sofferenza del boss alla resa dei conti, perché non fosse perduta nel nulla, la vita di questo uomo di nulla. Per tutti è morto, e anche per Totò Riina. Un mistero immenso di amore che anche noi cristiani, limitati e fragili, a volte dimentichiamo, comprendiamo a mala pena, forse egoisticamente ostinati in una speranza che tuttavia serve a sostenerci.
E chissà se il boss mafioso ha avuto il tempo di capire tutto questo. Perché anche chi non crede o chi pensa di non credere alla resa dei conti, gli occhi li alza verso il cielo. Perché nonostante tutto non sono proprio convinta che davvero il nulla lo accompagni nella sua ultima partita con la morte. E “a questo giro” non è certo dalla sua parte, ma se la trova implacabile avversaria. Dovrà piegarsi.
E credo anche che c’è una capacità di bene che non muore mai del tutto e che persino il boss, “il Capo”, Riina, stia stringendo la sua mano che tante volte ha colpito, magari in quella di un figlio a cui, un giorno lontano, ha riservato un sorriso, una carezza o un palpito del cuore.
Nessuna esistenza è meritevole di disprezzo, neanche la più orribile, perché in ciascuna è racchiuso, magari anche invisibile, l’attimo della salvezza. Lo spero. Anche in questo caso.
Che Dio abbia pietà di quell’attimo.
Luisa Loredana Vercillo
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