Gomorra, un Sud a senso unico

veleIl video con la Nazionale di calcio italiana che “tifa” allegramente Gomorra (in primo piano i napoletani Insigne e Immobile) fa il giro del web, dopo il finale della seconda serie – trasmesso l’altra sera da Sky Atlantic – che tutti i social definiscono «da brivido», compresi colpi di scena inaspettati e bimbi ammazzati.

Non è un paradosso? È vero che la fiction di oggi vive più di estetica che di etica. Uno scollamento tra spettacolo e contenuto, dove l’alta qualità registica rifugge dall’impicciarsi delle questioni morali. Sono le regole internazionali dello showbusiness, alla maniera americana, e occorre adattarsi agli standard, specialmente se si produce per piattaforme internazionali come Sky o Netflix. D’altronde lo schema collaudato è sempre quello, che siano storie intrise di cinismo politico come in House of cards o di irresistibile cattiveria come in Breaking Bad: inappuntabile qualità di scrittura e di regia, nessuna morale.

Anche in Gomorra i protagonisti esercitano il fascino del proprio lato oscuro, chiusi nel loro mondo dove la violenza è regola, anzi, diventa “codice narrativo” senza sfumature ai fini dell’intrattenimento televisivo. Con un particolare, però, determinante: quello che all’estero è percepito semplicemente come un appassionante “gangster movie”, in Italia va invece a toccare un nervo scoperto nel nostro Paese. La serie ispirata al libro di Saviano (ideatore anche della fiction), ambientata a Secondigliano e Scampia, adombra dietro le lotte intestine del clan (televisivo) Savastano quelle di clan veri come i Di Lauro e mostra efferatezze ispirate alla cronaca reale. Ma considerarla solo una serie di pura “evasione” risulta assai difficile. Specie per i campani onesti che hanno protestato, non rivedendosi in quelle immagini, o per le associazioni, i religiosi o le forze dell’ordine di cui non c’è traccia della serie. Una scelta stilistica, dicono gli autori. Ma che, inconsapevolmente, incide sul lavoro di gente come don Antonio Carbone, saliesiano di Torre Annunziata che ad Avvenire ha raccontato quanto sia dura, dopo tanti sforzi per educare i suoi ragazzi alla legalità, sentire uscire dalle loro bocche gli “slogan” dei boss di una fiction «da cui emerge una sorta d’involontaria esaltazione dello stile di vita mafioso».

Occorre però anche analizzare il fenomeno televisivo per quello che è, e riconoscerne sia la “potenza di fuoco”, sia l’aspetto innovativo della produzione, ma anche i limiti. A partire dagli investimenti dei produttori Sky, Cattleya e Fandango, che hanno arruolato un team di sceneggiatori di prim’ordine – a partire da una firma storica come Stefano Bises –, che hanno saputo dare vita a storie avvincenti. Alla regia uno specialista nel genere come Stefano Sollima (coadiuvato da Claudio Cupellini e Francesca Comencini), che ha dato al prodotto un taglio cinematografico di livello internazionale. E questa non può essere che una buona notizia per l’industria nostrana. Come pure la scoperta di un bel gruppo di attori sconosciuti, molti provenienti dal teatro, come i giovani protagonisti Marco D’Amore e Salvatore Esposito e l’intenso Fortunato Cerlino. Anche se, al pari dei suoi omologhi americani, Gomorra è uno di quei prodotti che fanno più tendenza che ascolti.

Le ultime due puntate della serie hanno ottenuto una media di 1 milione 200mila spettatori e uno share medio del 3,5%, che per Sky è un gran risultato (si è piazzata prima rete dopo i sette canali generalisti), ma che non regge ancora il confronto con le reti tradizionali: vedi i 6 milioni 499mila spettatori e lo share del 25% di Rai 1, che trasmetteva la partita Portogallo-Islanda per gli Europei di calcio. D’altronde la prima serie di Gomorra quando sbarcò in replica su Rai 3, dopo un esordio boom si attestò su una media del 6% di share. Quel che è vero, però, è che da queste fiction si delineeranno quelle del futuro, specie perché incidono su un pubblico giovanile: Gomorra 2 è stata la serie tv italiana più discussa su Twitter nell’intera stagione televisiva con oltre 128 mila tweet (fonte Nielsen Social, da settembre 2015 a martedì scorso) e il finale si è confermato il programma più discusso sul social network con oltre 19 mila “cinguettii”. Tra i tanti, anche quello dello stesso ideatore, Roberto Saviano: «Ma il bene dov’è in questa serie? Nella qualità infinita degli attori figli della nostra terra». Il giornalista-scrittore svicola astutamente le polemiche. Ritagliando per sé, in fondo, il ruolo dell’unico “buono” della serie.

(da Avvenire)

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