Quarantesimo anniversario della scomparsa del più grande intellettuale del dopo-guerra: un Pasolini privato

pasolini2La Spezia – Una sera del 1975, esattamente 40 anni fa, Pier Paolo Pasolini raccatta alla stazione Termini Pino Pelosi, borgataro che fa marchette. Lo porta a mangiare sul Tevere, vanno all’Idroscalo, e in macchina gli fa “una cosa di bocca”. Nessun santino: Pasolini era dilaniato da un’ossessione sessuale nella quale, penso e me ne prendo ogni responsabilità, non era secondo il gusto di sporcare l’immagine dell’intellettuale organico che era suo malgrado agli occhi della gente, di membro della nomenklatura ammuffita del PCI dalla quale era uscito nei fatti e che nel profondo odiava. Terminato il lavoretto, sostiene Pino la Rana – sostiene, ci ripensa, “non ricordo”, “non so”… – lui figlio malnutrito delle borgate, ebbe la meglio – dice, cambia idea, non ricorda, non sa… – su Pasolini, forte, allenato, muscolare. Eppure in quello sterrato, dicono le tracce, c’erano parecchie altre persone. Trappola? Scientifica eliminazione? 

Non ho prove. Ma come scriveva Pasolini:
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che rimette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero. 

So, perché la verità è rivoluzionaria, e come diceva Paolo di Tarso, rende liberi. Anche quando non sa o non riesce a farle, le rivoluzioni. O le viene impedito.

Lo scandalo del contraddirmi. La prima cosa che lessi fu “Le Ceneri di Gramsci”. E mi folgorò. Lo so, sono altri i brani di Pier Paolo Pasolini che tutti citano e conoscono (o dicono di…): l’invettiva contro i contestatori di Valle Giulia;

A Valle Giulia, ieri
si è così avuto un frammento
di lotta di classe: e voi amici
(benché dalla parte della ragione)
eravate i ricchi.
Mentre i poliziotti (che erano dalla parte
del torto) erano i poveri.

…l’accorata commiserazione della mia generazione;

oh sfortunata generazione
piangerai, ma di lacrime senza vita
perché forse non saprai neanche riandare
a ciò che non avendo avuto non hai neanche perduto…

Una totale lontananza da “facili entusiasmi e ideologie alla moda”. Era un’epoca di barricate ottusamente manichee, il bene era da una parte sola e si poteva raccogliere in briciole, come cadeva dal palco dei comizi: per terra, dove erano “sparsi, disordinatamente, i vuoti a perdere mentali abbandonati dalla gente…”.

Il libero pensiero invece era una malattia infettiva, da eliminare. Di quel geniale non allineamento mi sentii immediatamente fratello, io, che per i miei astrusi interventi alle assemblee di istituto ero stato battezzato dai “capintesta con i distintivi sfavillanti” “L’Anarchico Fascista”. Mi piace talmente tanto, questa definizione – l’Anarchico Fascista – , che me la tengo ancora oggi, mentre mi proclamo figlio di quella divergenza non parallela che fu rappresentata proprio da Pier Paolo Pasolini, finché non diede troppa noia a Servizi Segreti Deviati e Dritti, Banchieri di Partito, Petrolieri di Dio, Miglioristi e Miglioratori, Agenti della CIA e compromessisti storici.

E non diede troppa noia, finché non disse: “Io so.”
Allora, la divergenza fu fatta sparire.
Ma era tardi, la ventata c’era stata.

La sua voce, fuori dal coro.
E così. In quel crepuscolo di anni ’70, di progressive, occupazioni, indiani metropolitani, “Vietato vietare”, “Le ceneri di Gramsci” Pasolini mi folgorò. Soprattutto per la descrizione esatta di un conflitto che mi stava dentro e m’ha accompagnato come uomo, prima ancora che come scrittore, per il resto della vita, e che allora, disperato egocentrismo di adolescente, credevo fosse solo mio:

Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere
con te e contro te; con te nel cuore,
in luce, contro te nelle buie viscere…

Pasolini scriveva, e io – come migliaia di ragazzi – mi vedevo proiettato sul muro della mia stanza, in una metaforica moviola: lo scandalo di non essere all’altezza di ideali, o ideologie, che allora pretendevano molto, di praticare la leggerezza contro la pesantezza dogmatica dei miei anni settanta (comunque tanto amati), adorare il rock per come suonava e non per i suoi slogan, prediligere le vasche in centro e le compagnie femminili così difficili da ottenere alle polverose riunioni di parrocchia, cellula o sezione. Di essere istintivamente portato al dubbio, allo scetticismo e all’ironia, fardello degli anni del liceo: fardello non allineato, qual ero, seguace del dubbio metodico. E dopo ogni intervento in assemblea, il caporione di turno mi studiava in tralice.
“Ma tu… sei anarchico, o sei fascista?”

Un lascito morale: il coraggio del sogno.
Pasolini mi rivelò – in esclusiva, mi parve allora – che era possibile. Sì.
Era possibile essere insieme passione e ideologia, ma contemporaneamente nessuna delle due. Era possibile aspirare all’ideale ma intuire quanto può essere fragile e insufficiente, di fronte alla grandezza della vita, al desiderio di Eterno, di Giusto, di Perfetto. Era possibile credere nel futuro, eppure sospettare che a nessuna ideologia si debba consegnare a scatola chiusa la propria esistenza e la propria voglia di Infinito. Meno che mai, se si autoproclamava infallibile, superiore, ed eterna. Pier Paolo Pasolini, in quello scorcio di anni ‘70, mi ha confidato che non ero io, l’errore dell’evoluzione, ma condividevo con molti altri spiriti liberi l’insofferenza al dogma. A qualsiasi dogma, anche quelli “buoni”, che erano buoni perché sì. Ho scoperto l’intellettuale arguto, lucido e tagliente, genuflesso nel profondo della propria anima martirizzata, la sua disperata implorazione ad un Infinito che si rifiuta di rivelarsi, l’urlo muto di un bisogno struggente e viscerale di un “centro di gravità permanente”, una chiave di volta che il Partito non era capace di rappresentare e il Dio dei cristiani si ostinava a non essere. La religione cattolica – non lo dico io – era radice suo malgrado, Pasolini ne aveva ereditato un senso di vuoto incolmabile, nell’assenza di quel Verbo, quel gesto, quella Parola di Verità che finalmente ti liberi e ti renda nuovo. Pensandoci bene, non so dire se il nichilismo radicale dell’ultimo periodo fosse bestemmia o assumesse, a momenti, il volto di una preghiera.

Ma nessuna risposta arrivò, perché tutto finì quella notte di 40 anni fa, su un piazzale sterrato dell’idroscalo di Ostia, con le labbra ancora sporche di umori maschili. Ma forse, il succo, sta nel cercarla, e continuare a farlo, annodati nelle proprie contraddizioni.

A papà, a me me sa che la vita nun è niente.
Be’, certo, la morte è tanta. Quando uno è morto, tutto quello che doveva fare l’ha bell’e
fatto.
(da “Uccellacci e Uccellini”)

Paolo Logli per Città della Spezia

Commenta